CAPITOLO 5
Saphira guardò la donna contro cui era finita e le rivolse un rapido sorriso di scuse. «Mi dispiace, non volevo urtarti.»
L’espressione della donna rimase gentile. «Non fa niente. Sei nuova qui?» chiese a bassa voce.
«Sì» ammise Saphira. «Spero di non dover aspettare molto prima di essere abbinata.»
Alla donna sfuggì una piccola risata. «Ah, sì. Decisamente nuova.»
Confusa, Saphira aggrottò la fronte. «Che cosa vuoi dire?»
La donna si girò completamente verso di lei, studiandola per un istante prima di spiegare. «Più persone possono essere abbinate a un unico individuo. La scelta è determinata prima dalla forza, poi dall'ordine di arrivo. Se chi è entrato prima di te reclama il proprio compagno, tu rimani ad aspettare che ne arrivi un altro. Temo che non sia un processo rapido per tutti.»
Quindi, avrebbe potuto aspettare un bel po'. Che meraviglia.
«Oh, fantastico.» Sospirò, abbozzando un sorriso comprensivo. «Mi dispiace che tu sia qui.»
«Anche a me per te.» La voce della donna aveva una nota solenne. «So che morirò presto, o per l'abbinamento o perché il mio vecchio branco mi aspetterà fuori per uccidermi, a prescindere dal risultato.» Il suo sguardo si addolcì. «Spero che il tuo destino sia diverso.»
Saphira incrociò i suoi occhi, la determinazione che balenava sotto l'incertezza. «Non si può mai sapere. Le cose possono cambiare.»
Sembrava che stessero aspettando da un'eternità. I nomi echeggiavano nella sala, chiamati uno dopo l'altro, ma nessuno era quello di Saphira. Si mosse con impazienza, lasciando vagare lo sguardo. Davanti a loro, un'imponente scalinata si estendeva verso l'alto, la cima contrassegnata da indicazioni per i diversi numeri delle stanze. Dietro di loro incombevano le sale dei test, sterili e poco accoglienti. Oltre a quello, il nulla: niente finestre, niente decorazioni, solo il vuoto.
«Saphira White. Si rechi alla stanza numero sette.» La voce rimbombò da altoparlanti invisibili, riverberando nello spazio.
Si voltò verso le scale, inspirando lentamente. Era arrivato il momento.
«Sono io» disse, lanciando un'occhiata alla donna al suo fianco. «Comunque, io sono Saphira.»
«Il mio nome è Amara.» L'espressione della donna era indecifrabile, ma la sua voce conteneva un avvertimento. «Ho sentito delle cose sul numero sette, Saphira. Per favore, fa' attenzione.» Una pausa, poi un piccolo sorriso agrodolce. «Spero davvero che le nostre strade si incrocino di nuovo. Penso che saresti un'ottima amica.»
Saphira esitò, poi accettò l'abbraccio d'addio che Amara le offrì.
«Addio, Amara» mormorò prima di voltarsi e dirigersi verso le scale.
Saphira si fece largo tra la folla, facendosi strada verso la scalinata che portava alle stanze. Guardò in alto, inspirando profondamente prima di fare il primo passo. La salita era costante, decisa, finché una voce non risuonò dagli altoparlanti.
«Amara Jansen. Si rechi alla stanza numero due.»
Saphira si fermò solo per un istante, voltandosi a guardare Amara ai piedi delle scale.
«Sembra che tu mi abbia portato fortuna» disse Amara con un piccolo sorriso. «Ci vediamo dall'altra parte.»
Le due continuarono la salita in silenzio, ognuna persa nei propri pensieri. La stanza numero due arrivò per prima, e Saphira si fermò, rivolgendosi ad Amara un'ultima volta. Le offrì un rapido abbraccio, un saluto silenzioso.
«A presto» disse prima di allontanarsi, ormai concentrata sul raggiungere la stanza numero sette.
Saphira non ci mette molto a ritrovarsi davanti alla porta che nasconde il suo destino: la porta numero sette. Esita, il peso della propria incertezza che le preme sulle costole. È questo il momento. Non si torna indietro. Con un respiro profondo per farsi coraggio, apre la porta, entra e la lascia chiudere alle sue spalle.
La prima cosa che nota è la sua valigia, già posata nella stanza. Una piccola grazia, suppone. Almeno non dovrà chiedersi dove sia finita. La lascia dov'è, scegliendo invece di avventurarsi più a fondo nello spazio. Il buio avvolge completamente la stanza, premendo su di lei da ogni lato. D'istinto, i muscoli le si tendono. Non poter vedere la mette sempre a disagio, una vecchia abitudine che non è mai riuscita a scrollarsi di dosso.
«Allora, hanno deciso di provare ad accoppiarmi… di nuovo».
La voce profonda squarcia il silenzio, facendola sobbalzare. Il cuore le martella nel petto, il suono che le rimbomba nelle orecchie mentre si volta di scatto verso la sua origine. È una voce sconosciuta, con una nota gelida sotto la superficie, anche se non saprebbe dire se sia amarezza o sfinimento. Strizza gli occhi, ma nelle ombre fitte riesce a distinguere solo il vago profilo della sua figura.
Le si torce lo stomaco. Non le piace non sapere con chi ha a che fare.
«Prima che ti uccida, dimmi: come ti chiami e cosa sei?» La voce emerge dall'oscurità, fendendo l'immobilità come una lama.
Il polso di Saphira accelera, mentre il panico le artiglia la gola. Deve rispondere, e in fretta. «Sono Saphira, e sono mezza lupa» butta fuori, con la voce più ferma di quanto si senta.
«E l'altra metà?» incalza lui, con un tono tagliente, pressante. Saphira sforza la vista nel buio, cercando un qualsiasi segno di movimento. Ma non c'è nulla. Se è un vampiro, potrebbe farla fuori prima ancora che lei si accorga del suo spostamento.
«Onestamente, non lo so». Le parole le escono crude, sincere.
Segue una risatina sprezzante. «Sì, certo. Conosco quelle come te, fate le innocenti per fregarmi». La sua voce è ancora più fredda ora, intrisa di diffidenza in ogni sillaba.
Lei percepisce il sottile cambiamento, un leggero movimento in avanti. L'oscurità continua a nasconderlo, ma la sua ombra si allunga, inghiottendo altro spazio tra loro.
«Non puoi uccidermi» sbotta, indietreggiando d'istinto. «Sono protetta». Spera – prega – che Jed avesse ragione, che funzionerà.
«Ah, davvero?» la schernisce lui, con la voce grondante di derisione. «E da chi, visto che ti hanno costretta a venire qui?»
Saphira si irrigidisce, sforzandosi di infondere sicurezza nella propria voce. «Dalla famiglia Arrax». Lo dice con fermezza, sperando con tutta se stessa che le creda.
Ma la reazione che ottiene non è paura o esitazione, bensì una risata. Un divertimento tagliente e corposo che echeggia per la stanza.
Non era affatto la risposta che si aspettava.
«Cosa?» La voce di Saphira esce acuta per la confusione, la mente che si affanna a dare un senso alla reazione di lui.
«Oh, cara, sei davvero delirante oppure pericolosamente astuta. Non riesco a decidere». Il suo tono è carico di divertimento, ma sotto di esso lei percepisce qualcos'altro, qualcosa di più gelido. «Dimmi, perché mai dovrebbero proteggerti?»
Lui fa un passo avanti e lei si irrigidisce d'istinto. L'aria intorno a lui sembra carica, predatoria. Sta aspettando la sua risposta.
«Sono sotto la protezione di Jed Arrax» dichiara con fermezza, imponendosi di mantenere la voce stabile. «Mi ha dato il marchio della famiglia».
Senza esitazione, solleva il polso, mostrando la pelle liscia. Come a un segnale, proprio come aveva promesso Jed, la lettera "A" brilla fino a materializzarsi.
«Quel bastardo» mormora l'uomo a mezza voce.
A Saphira si mozza il respiro. Conosce Jed. Se personalmente o indirettamente non può dirlo con certezza, ma la sua reazione la dice lunga.
